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La ragazza del caffè - Sulla rotta dei migranti

Aggiornamento: 16 giu 2024


Prologo


Marta Floris figlia dell'ambasciatore italiano in Etiopia, con sede ad Adis Abeba, viveva, quasi ibernata nel suo ufficio presso la sede del Dipartimento dell'Economia e dell'Industria dell'omonimo Paese.


Marta aveva circa 30 anni e dopo i suoi lunghi studi in economia ed i suoi Master per la produzione e lo sviluppo del Caffè Etiope era stata incaricata dal governo di Adis Abeba di promuovere il commercio della preziosa bevanda. Marta amava il Paese che l'aveva accolta nella propria terra ed aveva sviluppato un forte legame di fratellanza e solidarietà, cercando di prestare la sua opera nel modo migliore.

Per questo motivo aveva conosciuto anche alcune famiglie di piccoli produttori locali con l'obiettivo di approfondire il legame e conoscere in modo particolareggiato tempi e modalità di produzione.


Grazie al lavoro di suo padre che l'aveva costretta a seguirlo in molti Paesi Europei e del continente Africano parlava correntemente quattro lingue: Italiano, Spagnolo, Inglese e Francese. Inoltre aveva cercato di imparare alcuni idiomi locali con l'obiettivo di entrare in contatto con le diverse etnologie al fine   di conoscerne usi e costumi.

Era conosciuta un po' ovunque dai Paesi produttori di Caffè, perché le sue capacità ed il suo entusiasmo, oltre che naturalmente la sua preparazione, le consentivano di avere una conoscenza delle politiche commerciali, che altri Stati non potevano vantare.


La sua  presenza e quindi il suo apporto individuale, rappresentava, da un punto di vista commerciale, uno "strumento"che veniva accettato quasi con fatica perché si traduceva in un fatturato che ogni anno assumeva cifre sempre più importanti.


Anche nel vicino Kenia il caffè era il prodotto che rappresentava il motore portante dell'economia anche se le politiche commerciali avevano però puntato, soprattutto  sulla qualità piuttosto che sulla quantità.

Infatti, nel corso degli anni, ad una minore quantità di prodotto aveva corrisposto,  un aumento del prezzo con la conseguenza di ottenere un maggiore fatturato.


Per questo motivo, per la sua esperienza anche a livello internazionale veniva definita "La ragazza del caffè"

Questa sua fama soprattutto per i Paesi africani limitrofi, sembrava essere, ormai, un personaggio scomodo, di cui ci si doveva sbarazzare.


Per molto tempo visse in questa situazione, cercando di tenere lontano questa possibilità, ma ben presto la realtà si dimostrò molto più amara.


Marta non voleva dar peso a questo aspetto, ma la sua  popolarità ed il  maggiore impatto economico raggiunto rappresentavano per taluni un pericolo da eliminare.


Il sequestro 


Era un pomeriggio d'estate quando, nel lasciare il suo Ufficio, tornando verso l'ambasciata,  venne bloccata da quattro uomini, che le si avvicinarono con un auto e la invitarono a salire con modi non violenti, ma che non ammettevano repliche.

Nel momento in cui chiese spiegazioni,  subito, con modi spicci la obbligarono a tacere.

Si rese conto quasi immediatamente che quello fosse un rapimento a tutti gli effetti e quali fossero i motivi poteva immaginarlo.


Capi' che l'auto si era diretta decisamente verso Sud e pensò che la meta fosse il Kenia.

Dopo due giorni ininterrotti di viaggio tra strade dissestate e colme di sabbia uno dei quattro rivolgendosi a lei  disse, in un pessimo inglese, di essere arrivati a destinazione.


La macchina si era fermata poco lontano da un agglomerato di capanne che a lei parvero costruite con materiali tratti da paglia e fango situate  a pochi metri da alcuni alberi di acacia.

La fecero scendere e l'accompagnarono in una delle capanne dal quale proveniva un forte profumo di caffè.

Le era capitato nel corso delle sue tante visite presso alcuni produttori Etiopi di sentire il profumo del caffè ed il suo olfatto  ormai esperto le aveva fatto percepire il forte aroma dell'arabica che attribuiva a quella  bevanda il massimo della purezza.


Resto'  ferma, seduta su una sedia di fortuna ed assaporo' a lungo la bevanda lasciando che le sue narici si inebriassero di quel profumo.

Poco dopo immersa nei suoi pensieri e stravolta dalla fatica si addormento'.


L'ambasciata una volta accertata la fonte delle notizie pervenute aveva iniziato il suo lavoro di contatti e di verifiche per valutare quale fossero le strade da seguire per il rilascio dell'ostaggio.

Non fu facile trovare nell'immediato una soluzione del problema ma ben presto le informazioni che via, via pervenivano dall'intelligence permetterono di mettere a fuoco una possibile strategia.


Intanto era stato appurato il fatto che il rapimento fosse legato alle politiche del caffè che avevano portato in beve tempo l'Etiopia a raddoppiare il proprio fatturato.

Inoltre il governo  non vedeva di buon occhio questo trend  perché 

l'industria del caffè rappresentava per il Kenia la maggiore risorsa economica e non era disposta ad accettare un  ulteriore debacle.


L'immagine della ragazza legata al commercio del caffè aveva ormai superato le barriere internazionali ed il prezzo di vendita risultava per l'Etiopia sempre più vantaggioso

Anche le borse in qualche modo subivano le conseguenze di questo stato di cose e vedevano le quote delle società legate al mercato Etiope continuare a salire.


Alla luce dei fatti qualsiasi mediazione sembrava non potesse avere un esito positivo.

L'ambasciata era certa che anche una offerta economica a fronte del rilascio della giovane non avrebbe potuto dare risultati.


Questa analisi così cruda ma, concreta, non consentiva di vedere la soluzione della situazione.


Per questo, sulla base dei fatti, per poter salvare la vita della ragazza, non pote' che assecondare la proposta dei servizi segreti che proponevano un'azione di forza.

Infatti le forze di intelligence erano certe che qualsiasi via di fuga aerea avrebbe trovato pronti i rapitori ad impedirla mettendo a repentaglio la sua vita.


Tra l'altro non poteva giovare rendere pubblico il rapimento della ragazza perché ciò avrebbe contribuito ad alimentare un clima d'odio e d'intolleranza che  avrebbe comportato un inasprimento dei rapporti col vicino Paese.


La fuga


Ferme queste considerazioni 

di concerto con il governo Italiano, l'ambasciatore organizzò con le autorità  un'azione tesa a riportare la ragazza in Italia.

La fuga apparve ad alcuni praticamente impossibile tanti erano i rischi e le incognite che l'avrebbero accompagnata.

Infatti la vita della ragazza era legata soltanto ad un sottile filo di speranza.


Le poche chance che l'azione fosse andata in porto erano insite nel fatto che i rapitori non avrebbero mai potuto intuire quale potesse essere il piano di fuga.


In primo luogo, nella consapevolezza che i rapitori l'avessero condotta nel territorio Keniano, vennero interessati tutti gli informatori di mettersi in contatto con pastori Nomadi, circa l'eventuale presenza nelle zone di frontiera di movimenti sospetti.

Infatti dopo circa tre settimane di controllo i pastori segnalarono il passaggio  regolare, con circa una frequenza di due volte a settimana, l'incursione  di un'auto con la medesima targa, dal territorio Etiope a quello Keniano.

Gli appostamenti dei pastori avevano potuto appurare che la meta era una abitazione non lontana dal confine, dove questi uomini entravano con dei pacchi e ne uscivano poco dopo averli consegnati.

Inoltre  gli stessi pastori poterono accertare che presso l'abitazione erano sempre appostate delle persone a protezione del territorio.


Il piano poteva sembrare irrealizzabile, ma presto fu deciso, che quella sarebbe stata l'unica strada percorribile.


Venne assoldata una squadra di Tuareg pronti a tutto con lo scopo di trasferire la ragazza dal suo rifugio fino al territorio Libanese, attraversando il deserto  del Sudan, fino alla città di Samnu.

Migliaia di chilometri da percorrere nel deserto Libico-Nubiano con l'obiettivo di evitate i controlli delle forze governative usufruendo dei percorsi verso il mediterraneo destinati ai profughi ed ai rifugiati.


Alle soglie della quarta settimana di sequestro, quando le sue speranze di libertà iniziavano a mostrare i primi cedimenti, i Tuareg intrapresero la loro azione.


Era ancora notte fonda quando  giunsero con due fuoristrada che si fermarono, per non essere sentiti, molto distanti dalla fattoria appostandosi lentamente presso gli edifici contigui a quello ove si trovava la sequestrata.


Entrarono nel silenzio ed ebbero la meglio delle persone che vi si trovavano senza che vi fosse uno scontro a fuoco.


Quando erano ormai dentro e sembrava che l'azione fosse riuscita l'ululato di un coyote svegliò improvvisamente i miliziani di guardia. Questi ultimi imbracciate immediatamente le loro armi non esitarono a sparare  ed uccisero uno degli aggressori  ma ebbero decisamente una sorte peggiore in quanto furono, in ultimo,  tutti abbattuti.


Nel trambusto la ragazza tento' di allontanarsi ma la donna che aveva il compito di controllarla la strattono' per tenerla, con la conseguenza di vederla battere violentemente la testa su un masso di roccia.

Così la vide cadere a terra e restare immobile finché non venne sollevata dai Tuareg e portata via di peso in auto.


Marta Floris dormiva ormai da diverse ore e quando riprese conoscenza restò stordita senza dire una sola parola.


- Dove siamo? - Domandò in un inglese senza accenti 

- Siamo in Sudan, diretti verso la Libia in direzione Nord - rispose uno di loro

- Perché?  chiese stupita

- Poi disse - Non ricordo nulla.

- Uno di loro rispose - Dobbiamo portarti in Italia" e continuo' 

- Non abbiamo il tempo di spiegarti.


La ragazza si massaggiava con una mano un grosso ematoma che aveva sulla nuca.


“Cerca di dormire ti sveglieremo quando saremo a destinazione”  le dissero.


Non ebbe la forza di reagire e fu presa da un profondo torpore.


Il sole scendeva lento inondando di luce le dune che come schegge di vetro restituivano i raggi proiettandoli nell'aria rovente.


Circa 24 ore più tardi, dopo un sonno inquieto e lunghi periodi di veglia, si senti' chiamare dai suoi accompagnatori che le comunicavano di essere arrivati a  destinazione.


Le presentarono un uomo che le disse che l'avrebbe portata in Italia, le diede un abbigliamento tipico della tradizione musulmana e le ordinò di indossarlo.


I Tuareg che l'avevano liberata porsero all'uomo una busta, che sarebbe stato il suo compenso, che immediatamente spari' nelle pieghe del suo abito.


Poco dopo venne fatta salire su un camion che doveva essere di origine militare che l'avrebbe portata in 24 ore nel golfo di Ludua dal quale si sarebbe imbarcata per l'Italia.


Aspettarono la sera poi all'arrivo di un barcone con  due scafisti i migranti vennero raggruppati in un angolo del porto, fatti salire ed invitati a sistemarsi nella stiva in condizioni di estrema precarietà.


Il destino volle che lo scafo  al terzo giorno di navigazione arrivasse  a destinazione con tutti i passeggeri sani e salvi.



Il centro di accoglienza di Cariggi


Il paese di Cariggi si trova sull’omonima collina che digrada verso il mare alternando vigneti e giardini terrazzati che danno al paesaggio, per la loro bellezza, l’effetto di un quadro. La costa proprio in quel punto disegna un ampio semicerchio formando un piccolo golfo naturale che si completa nella piccola rocca sporgente ove è posto il faro.


In quella zona di mare, abbastanza fuori mano rispetto ad altre mete turistiche,  accade spesso che  arrivino  barconi di emigranti e per questo motivo l’area è sotto il continuo  controllo dalla guardia costiera. Di solito gli sbarchi si verificano di notte ed il faro  rappresenta per l’attracco, un buon punto di riferimento.


Cariggi, è una sorta di paese di frontiera ove la dogana è rappresentata dal centro di accoglienza dei migranti. Di là passano ogni anno migliaia di persone che  vedono in quel luogo una sorta di passaggio ideale per sperare di  trovare una possibile soluzione alle loro vite.  


La strada  che  porta dal paese al faro è  stretta, asfaltata solo nel primo tratto è completamente alberata,  su entrambi i lati, da pini secolari che, con i loro rami,  coprono completamente  la sede stradale. Negli afosi  pomeriggi estivi capita di trovarci alcune persone, che per  prendere  un po’ di fresco,  si fermano protette dall’ombra  ed approfittano di qualche momento d’ozio. Nel primo tratto, che è anche quello più alto e vicino al paese, è possibile  scorgere il mare e spaziare con la vista da una parte all’altra del golfo. Proprio lì a due passi, al riparo di tre grandi pini, c'è un piccolo bar con dei tavoli ove spesso le persone più anziane trascorrono il loro tempo giocando a carte.

Nei giorni di eccessivo calore l’aria si fa torbida e pesante ed il mare sembra fondersi nel cielo. 



Man mano che si scende  la vegetazione assume una diversa connotazione  e gli alberi lasciano il posto a  piccole zone di macchia dalle quali sale il profumo di lavanda. Il percorso si conclude  in una piccola area verde con alcune panchine che guardano il mare proprio qualche passo sopra il faro di Cariggi. 


Là, seduto su una di quelle panchine, il  Dr. Francesco Giuffrida era assorto nella lettura di un quotidiano locale.


Francesco Giuffrida era nativo di Cariggi, laureato in medicina a Milano, tornato nel suo paese come medico responsabile del centro di accoglienza, single, dell’età di 40 anni. Lineamenti abbastanza marcati, carnagione scura, 1,75 mt. di altezza, occhi scuri, capelli neri, fisico longilineo, nell’insieme un bell’uomo. 


Come accadeva ogni pomeriggio 

si apprestava a recarsi al lavoro  presso il centro di accoglienza. Facendo quel breve percorso che lo riportava verso il paese cercò di mettere a fuoco i casi che riteneva di maggior interesse.


Prima di tutto c’erano dei bambini da controllare;  si doveva procedere con urgenza a dei controlli medici per verificare il loro stato di salute poi  altre situazioni abbastanza gravi ma non critiche. Tra queste appunto quella che riguardava la ragazza bianca di cui aveva sentito parlare con la quale avrebbe voluto mettersi in contatto. 


Quando arrivò c’era una gran confusione, dappertutto si vedevano persone agitarsi, molte in preda ad una inspiegabile frenesia,  altre quasi disperate, solo poche sembravano apparentemente tranquille.


Chiese dei bambini, li trovò in una zona separata dal corpo centrale del fabbricato, con le loro mamme. Ebbe la sensazione che stessero in  buona salute, li visitò e prescrisse  alcuni accertamenti clinici di routine. Quindi andò in cerca della ragazza.


 La ricerca si rivelò abbastanza difficile perché era stata dirottata su un altro piano in prossimità degli uffici. Quando la individuò, vide che stava parlando con lei un uomo che le faceva delle domande, ma dal dondolare della testa di lei ebbe la sensazione che non volesse rispondere. Avvicinandosi ulteriormente capì che lei ripeteva semplicemente: “non ricordo!”. Pensò che quella ragazza avesse bisogno di riposo e pregò il suo interlocutore, di allontanarsi.


Quest'ultimo salutò la ragazza poi rivolgendosi al medico si presentò come un funzionario del Ministero degli Interni che non disse la vera identità della ragazza e pregò il Dr. Giuffrida  d e tenerlo informato sul decorrere della sua convalescenza.



Aspettò che  quest’ultimo se ne fosse andato, quindi si avvicinò e si presentò: “Buonasera, Dr. Francesco Giuffrida”. Lei rispose semplicemente con un “Good evening”. 


La prego mi dica: “Qual è il suo nome?”  Lei lo guardò piuttosto sorpresa e rispose soltanto “I am sorry, I don’t remember!” “Non ricorda nulla le disse lui?” No, nulla!

- Vedo che ha una collana con il nome Marta" potrebbe essere questo? Le chiese

Lei allargo le braccia in segno di rassegnazione.


Le spiegò allora che sarebbe stato necessario un periodo di recupero abbastanza lungo; quantomeno il tempo necessario perché lei potesse riacquistare almeno parte della sua memoria. Nel frattempo le disse che, come concordato con il funzionario, avrebbero avviato, tramite le autorità preposte, le necessarie ricerche.


Si accomiatò dicendole che si sarebbero visti l’indomani per una passeggiata e ne diede comunicazione al personale di servizio.


I loro incontri diventarono più serrati, Marta ogni giorno riusciva a recuperare parte della sua memoria ed i ricordi si facevano vivi.

Si fermavano a volte a prendere un caffè nell'unico bar e passavano il tempo in lunghe chiacchierate.


Osservava le persone gustare la preziosa  miscela e si accorgeva come il loro comportamento durante la conversazione assumesse dei toni affabili e cordiali e come quel benessere si protraesse per tutta la durata dell' incontro.


A volte si emozionava nell'ascoltare le loro parole che le suscitavano commozione a  testimonianza di quanto fosse forte in lei il trauma subito.


Iniziò a ricordare alcuni episodi della sua vita passata come fossero dei flash ma ai quali non riusciva a dare un ordine preciso.


Frank  fu il suo angelo custode  cercò di accompagnarla in questo suo viaggio nel passato senza interferire nei suoi ricordi.


Facevano  delle lunghe passeggiate e spesso si fermavano ad osservare il mare.


Quei giorni rappresentavano per lei, oltre che un modo per ritrovare un adeguato stato di salute anche una buona terapia per recuperare il suo equilibrio psichico.


Dopo tre mesi dal suo arrivo aveva praticamente completato il suo percorso di recupero e si poteva affermare che fosse, clinicamente  nel pieno delle sue capacità psicofisiche.


Ripercorse gli ultimi giorni del suo viaggio e pensò a quelle lunghe colonne di uomini che quotidianamente si confrontavano con la morte per avere almeno la possibilità di una vivere dignitosamente.

Ripenso' a lei stessa, al suo impegno, ai suoi studi alla sua fama, "La ragazza del caffè", come l'avevano definita.

 

Rivisse gli attimi di terrore che avevano accompagnato la sua liberazione e quegli uomini privi di vita in una pozza di sangue distesi accanto a lei.

Si rammarico' di aver causato con il suo operato, sebbene inconsapevolmente, tanto dolore, e tanta disperazione e sperò che presto quei contrasti potessero spegnersi.


Giorno, dopo giorno maturò l'idea che avrebbe abbandonato la sua attività perché non aveva più nulla da dimostrare a se stessa e che quell'esperienza l'aveva fatta maturare interiormente cambiando il suo modo di pensare.


Francesco che l'ascoltava rivisse quasi fisicamente i suoi racconti cercò di tranquillizzarla e di esprimerle tutta la sua partecipazione.


Quando ritenne che il suo recupero fosse completato e che si potesse parlare di guarigione, informò l'intelligence come gli era stato indicato.


Nello stesso momento il suo comportamento cambiò; i suoi consigli  divennero le sue premure ed i suoi sguardi le sue carezze.



Il faro 


Tanto era il desiderio  d'incontrarla  in una veste che non fosse quella di medico che,  quando finalmente la vide arrivare, ebbe un sussulto; indossava un abito di lino color avorio che metteva in  risalto  la sua silhouette fino a fermarsi appena sopra le ginocchia. Il collo era tondo  con tre bottoncini che lasciavano appena intravedere una sobria scollatura. Sulla parte posteriore c'era soltanto una lampo che scendeva fino al suo giro vita. Completava l'abbigliamento  un cappellino bianco di paglia a larghe tese con un piccolo fiore rosso, ed un paio di sandali di cuoio senza tacco allacciati con una piccola fibbia. 

Lui disse scherzando:" Sembri uscita da una sartoria più che da un centro di accoglienza profughi!" Lei rispose con un sorriso che non ammetteva altre  repliche.

Si fermarono qualche metro  più in là,  sul belvedere. 

L'intero golfo si offriva alla loro vista. Soffiava un leggero libeccio che tentava di opporsi a quel muro di calore che arroventava il borgo.

Rimase stupita a guardare, poi indicò un punto in lontananza: " Il faro!"

Di  quel faro le aveva raccontato mille episodi; c'era in quel luogo gran parte della sua vita; la storia della sua famiglia, della comunità dei pescatori;  di tutti quei migranti che ormai da molti anni arrivavano su quella terra nella speranza di trovare la strada per la loro felicità.

Si incamminarono quando era ancora piuttosto caldo. Alle porte del paese, c'era proprio all'inizio  del lungo viale alberato che scendeva verso il mare, un cartello sbiadito e consumato dal tempo con su scritto: "Il faro".

Il viale,   era una sequenza continua di luci ed ombre, il vento che soffiava faceva dondolare i rami lasciando balenare i raggi  del sole; si sentiva il profumo dei pini ed il canto incessante delle cicale che, in una sorta di simbiosi naturale, si librava nell'aria.

La strada era una galleria di colori e luci.  Tra un pino e l'altro si poteva trovare ora un oleandro, ora una ginestra; l'asfalto era praticamente un letto di aghi di pino. Marta ondeggiava in quel  teatro naturale, era  eccitata come  se stesse per prendere il volo; respirava profondamente, accarezzava la corteccia degli alberi, sembrava volesse abbracciare l'aria.  Ogni volta che vedeva qualcosa che destava  il suo interesse chiedeva a Frank di che cosa si trattava!  Così di rimando lui rispondeva:" Il ginepro, il mirto, l'alloro, etc.,  Cercava di darle  quante più informazioni possibili, sull'utilizzo e  sulle caratteristiche di questa o quella pianta.

Lei balzava via come una farfalla da una parte all'altra della strada seguendo i propri sensi, le proprie emozioni.

In un paio di occasioni il cappello le venne portato via dal vento ed i suoi lunghi  capelli biondi sembravano danzare all'unisono con le foglie.

Si fermò un infinità di volte ad osservare il mare. Le indicava ora un peschereccio,  poi il volo di alcuni uccelli ed ancora le sagome di alcune vele in lontananza.

Sembrava inesausta, insaziabile nel suo desiderio di conoscere e sapere.


Camminarono ancora lungo quel sentiero che sembrava sempre più ripido, fin quando, dopo una curva che  scendeva  verso il mare,  arrivarono al faro.

Rimase stupita a guardare, poi indicò  pochi  metri più in là  due panchine  ormai corrose dal tempo!  Si sedettero,   poco lontano c'era l'attracco delle barche dei pescatori  e si vedevano volare intorno i gabbiani.   Stettero  qualche  istante  in silenzio, poi entrarono.


Il faro era a tutti gli effetti una piccola casa,  dove ci si poteva vivere. Nella parte più bassa,  ove era situata la porta d'ingresso, era stata posta una piccola cucina ed una credenza ove erano riposte le stoviglie ed alcune vecchie tovaglie e dalla parte diametralmente opposta un piccolo salotto di vimini con un etagere dove erano appoggiati alla rinfusa alcuni libri.  Alle pareti erano affisse delle foto della sua famiglia e molte scene di pesca.

Poco spostato più in là c'era un armadio bianco ove Frank teneva gli abiti che usava principalmente per la pesca. La finestra piuttosto larga era poco distante dalla porta, con delle grate di ferro  fissate nel muro,  chiusa all'interno da una vetrata,  per far  entrare  quanta più luce possibile. 

Al centro era posta la scala a chiocciola che saliva su fino alla parte più alta e terminava in corrispondenza di un'altra finestra    ove,  su una sorta di ballatoio, era stato messo un letto dal quale si poteva vedere il mare.

Essendo ormai prossimo il tramonto, erano circa le 20,00,  il sole era basso;  e la  luce entrava, in quel momento, quasi orizzontalmente , illuminando l'interno.

Lei rimase incantata ad osservare,  le sembrava quasi di vivere un sogno. C'era in quel posto quel qualcosa di meraviglioso e di fantastico che tutti vorrebbero trovare nella propria vita.

Fu colpita da un raggio di sole che le illuminò il volto e le sembrò un segno del destino; forse qualcosa in lei stava accadendo o lei voleva che accadesse.


Osservò Frank, nel primo periodo di soggiorno presso il centro  lo aveva visto soltanto come il medico scrupoloso e metodico che cerca di guarire il suo paziente con quel fare  rassicurante e garbato  che è necessario per chi esercita quella professione.

Col tempo si rese conto però che nei suoi confronti c'era molto di più di quella che comunemente si definisce etica professionale.


Mentre era presa da questi pensieri chiese "Frank, per favore, si può fare un caffè? " Lui la guardò sorpreso "Sì, certo, là in quello sportello puoi trovare quello che occorre"

La vide  preparare con cura  la Moka ed avverti' poco dopo, il profumo diffondersi nell'aria!


Nell'attesa,  entrambi accompagnati da quella fragranza, disposero i loro sensi  affinché fossero pronti, ognuno, a recepire l'altro.

Si sedettero sulle due poltroncine di vimini e gustarono il caffè guardandosi negli occhi.


Erano  entrambi commossi, 

passato il primo momento di

emozione,  le indicò la scala e le chiese di salire. Frank la prese per mano e salirono insieme.

Arrivati sul piccolo piano, ove si faceva fatica anche a girarsi, venne sorpresa da quel l'incredibile vista!

Si fermò a guardare ebbe la sensazione di trovarsi sull'acqua e di essere parte di quella infinita bellezza.

Si avvicinò  a lui,  il suo cuore era in subbuglio.

Frank l'abbraccio,' sentì d'impatto il calore del suo corpo! Le sfiorò  i capelli, le disse di chiudere gli occhi, le baciò la fronte e le palpebre,  poi lentamente fece scendere la lampo  del suo vestito.

Rimase stupito  a guardarla." Sei meravigliosa "le disse; la natura non avrebbe potuto disegnare niente di  più  perfetto. "Sei più bella del mare!" Esclamò.

La osservava. Ciò che  provò e vide in quei momenti sarebbe rimasto scritto nella sua memoria.


Penso’ che finalmente quel luogo vedeva completata con la sua presenza quell’armonia  che tante volte egli aveva inutilmente cercato.


Le ripeté più  volte la stessa frase: "Sei meravigliosa" e lei, ogni volta lo ringraziava: "Grazie Frank, grazie!".

Restarono abbracciati per un tempo, indefinito; il sole era ormai sceso ed il buio stava per prendere il sopravvento sul giorno

Sentì le voci dei pescatori che si preparavano per uscire; avrebbe voluto salutarli, seguì mentalmente i loro gesti fino a quando il frastuono dei motori non ruppe il silenzio.

Più tardi vide dal suo avamposto, illuminate dal faro, le luci delle lampare.

Era notte fonda sentiva il calore del suo corpo ed il fruscio del suo respiro regolare su di sé! Non si mosse per timore di svegliarla fin quando il sonno non lo colse.


Le luci dell'alba annunciavano un nuovo giorno. Il sole nasceva e forse anche per loro stava per nascere una nuova vita.





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